Negli ultimi giorni questa foto ha fatto il giro del mondo: si tratta di uno scatto proveniente da un video d’inchiesta della BBC che raffigura la barriera corallina nei pressi di Manila, capitale delle Filippine, che sta diventando ogni giorno più blu a causa dell’aumento di mascherine chirurgiche. Secondo una stima dell’Asian Development Bank, si tratterebbe di oltre 280 tonnellate extra al giorno durante il picco della pandemia. La plastica contenuta all’interno delle mascherine è soggetta a processi di degradazione che portano alla formazione delle tanto chiacchierate microplastiche, che vengono poi consumate dalla fauna marina.
Assolutamente sì! Ne esistono infatti di due tipi primarie e secondarie. In entrambi i casi si tratta di particelle solide polimeriche di dimensioni inferiori a 5mm.
Le primarie sono intenzionalmente prodotte di queste dimensioni, per esempio nel caso dei glitter utilizzati in prodotti di make-up.
Mentre le secondarie vengono prodotte a partire dalla degradazione di altre plastiche, come nel caso delle fibre rilasciate dai vestiti durante il lavaggio.
A causa delle loro piccole dimensioni le microplastiche che arrivano ai nostri mari possono essere facilmente ingerite dagli organismi marini ed accumularsi all’interno dei loro tessuti e del loro sistema circolatorio. Questi organismi che popolano i mari di tutto il globo potrebbero poi essere ingeriti da altri animali in cima alla piramide alimentare, tra cui l’uomo, trasferendo così le microplastiche a livello trofico. Inoltre, oltre all’effetto sulla fauna dei mari, le microplastiche possono poi condizionare negativamente anche la fauna sottomarina. La crescita delle alghe ne è infatti fortemente influenzata e recenti evidenze scientifiche suggeriscono la possibilità di plastiche come il PVC ed il polietilene di trasportare composti idrofobici come il fenantrene, composto probabilmente cancerogeno e “parente” (isomero) dell’antracene, composto persistente, bioaccumulabile e tossico per gli organismi acquatici. Un recentissimo studio dell’ateneo di Cagliari, dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche, ha anche ipotizzato la scomparsa dei foraminiferi, protozoi essenziali per la resilienza ambientale degli organismi marini rispetto al cambiamento climatico, entro il 2100.
In uno studio del 2017, si stimava che ben il 10% delle microplastiche presenti nei mari appartenesse alla categoria dei prodotti per la cura della persona. Veniva anche sottolineata l’importanza di migliorare i sistemi di depurazione e le efficienze di trattamento delle acque reflue, in particolar modo a livello del Mar Mediterraneo, per il quale si calcola il più grande carico di microplastiche.
Dal 1° gennaio 2020 le microplastiche sono state vietate, a livello Europeo, nei prodotti a risciacquo per la detergenza, per i quali si inizia ad optare per sostanze più ecosostenibili come gli esteri di jojoba. Un passo in questa direzione più eco-conscious sta avendo un grande impatto a livello globale, con molti Paesi che si stanno adattando alla realtà europea, anche soltanto se come conseguenza del divieto imposto dal diretto partner commerciale. Le microplastiche, però, continuano a dominare la cosmesi decorativa, tutto ciò che conosciamo come make-up: sono infatti utilizzate anche come film formers, opacizzanti, rivestimenti di pigmenti o semplici glitter.
Da un punto di vista aziendale, portano con sé tanti vantaggi: accessibilità, possibilità cromatiche infinite, inerzia chimica, bassa carica microbica e non sono allergizzanti; da un punto di vista globale, a quale costo? E la Dermocompatibilita? Si potrebbe pensare che questo sia un parametro meno interessante ma sappiamo bene quanto stretto sia il legame tra Pelle e Ambiente. Sempre più dati scientifici accreditati e pubblicati ci riferiscono che tutto ciò che danneggia l’una danneggia anche l’altro e viceversa.
Fonti: